Dal :Mai Taclì N. 5/6-1982
Verso la fine del 1942, la nave da trasporto inglese “Nova Scotia” fu silurata da un sommergibile tedesco nell’Oceano Indiano. La nave, che trasportava militari sudafricani, prigionieri di guerra italiani ed un equipaggio inglese, affondò in pochi minuti, prima ancora che le scialuppe di salvataggio fossero lanciate in mare. Per le centinaia di vite umane rimaste in balia delle acque, infestate di pescicani, iniziò una orribile lotta per la sopravvivenza che non trova casi analoghi negli archivi delle tragedie in mare.
Il 17 settembre 1942, il sottomarino tedesco U-177 salpò dalla base di Kiel per una missione fatale. Al comando: il capitano Robert Gysae, di 31 anni, conosciuto come un freddo, fedele e zelante ufficiale. Gli ordini: dirigere il suo sottomarino intorno al Capo di Buona Speranza, infliggere il maggior numero di danni lungo la rotta e poi dare la caccia al naviglio Alleato nelle semipericolose acque dell’Oceano Indiano.
La mattina del 28 novembre, l’U-177 era in perlustrazione al largo di Durban, un attivo Porto Alleato. Subito dopo l’alba, Gysae individuò un punto all’orizzonte: una nave da trasporto si dirigeva verso il sottomarino. Il “predatore” di 1.600 tono s’ immerse ed aspettò...
Due settimane prima, quando l’U-177 doppiava il Capo di Buona Speranza, la veneranda nave da trasporto della Furness Withy “Nova Scotia” era all’ancora nel piccolo porto corallifero di Massaua a 5.000 miglia più a Nord.
Costruita nel 1926 per la rotta Liverpool-Halifax, la “Nova Scotia”, unità di 6.796 tono fu assegnata dal Ministero della Difesa Britannico al trasporto truppe in Africa Orientale: dal Sud Africa per Suez, in appoggio dèlla campagna in Nord Africa e nei viaggi di ritorno era adibita al trasporto di prigionieri italiani per il Sud Africa. Dopo una dozzina di viaggi senza incorrere in pericoli, anche le misure di sicurezza a bordo erano scarse. Non esisteva alcun convoglio per la “Nova Scotia”, come pure non aveva alcuna protezione sia aerea che navale. A poppa era montato un solo cannone da 4 pollici ed era dotata di due mitragliere anti-aerei sul ponte.
Il 14 novembre la Nova Scotia salpò da Massaua carica di prigionieri ed internati civili italiani, all’incirca dai 780 ai 1.000. Dopo tredici giorni di navigazione senza incidenti, lasciato l’Oceano Indiano entrò nel Canale del Mozambico. La mattina del sabato, 28 novembre, era nuovamente in mare aperto. Il mare era calmo, la giornata limpida. Le sfere del cronometro di bordo segnavano le 9.12 antimeridiane, il “predatore” tedesco era in agguato.
Esattamente alle 9.12 a.m. la “Nova Scotia” si trovava a soli 1.000 piedi dal sottomarino.
Gysae diede ordine di lanciare i tre siluri di prora... Immediatamente, l’una dopo l’altra tre violente esplosioni schiantarono l’unità...
Soccorso ai naufraghi
Quando il messaggio radio dell’U-177 fu ricevuto a Berlino, un SOS cifrato fu trasmesso all’Ambasciata Tedesca a Madrid, con istruzioni di ritrasmettere il messaggio all’Ambasciata Tedesca a Lisbona, che a sua volta ebbe il compito di informare il Governo Portoghese - paese neutrale - e richiedere assistenza ed aiuto per i superstiti dal Mozambico, colonia portoghese in Africa Orientale, essendo più vicino al punto di affondamento del Nova Scotia.
La Fregata e nave scuola della marina portoghese “Afonso de Albuquerque”, di 1.400 ton., era all’ancora nel Porto di Lorenço Marques dal giorno precedente.
Dovendo sostare in detto porto soltanto uno o due giorni, l’unità fu immediatamente rifornita di viveri, acqua e nafta. Questo fatto fu di vitale importanza per i naufraghi del Nova Scotia.
Alle 9 del pomeriggio di sabato, cioè 12 ore dopo il siluramento, un messaggio raggiunse la stazione radio di bordo. Il Capitano Josè Augusto Guerriero de Brito fu immediatamente informato in un ristorante della città. Raggiunse immediatamente la sua unità, dove prese visione del seguente messaggio: “Procedere immediatamente avanti tutta per raccogliere superstiti. Nave affondata 9.00 a.m. oggi latitudine 28°30’ S. longitudine 33° E. - 180 miglia a sud Lorenço Marques”.
Alle 2.30 della mattina di domenica, l’Albuquerque salpò da Lorenço Marques. Tenendo in considerazione la corrente, il Capitano de Brito intuì che i naufraghi li avrebbe trovati a più miglia a Sud del punto dove la Nova Scotia era affondata.
Alle 6 di mattina l’Albuquerque era in perlustrazione nell’area e il Comandante ordinò una attenta vigilanza da più punti della nave. Soltanto alle 1.12 pomeridiane, furono avvistati i primi naufraghi. Un ufficiale di coperta annunciò con il megafono: “zattera a tre miglia Nord-Est”. L’Albuquerque si diresse a tutta forza verso il punto. Una scala di corda fu calata lungo la fiancata della nave, ma quasi tutti gli occupanti della zattera erano sfiniti e dovettero essere aiutati a salire a bordo dell’Albuquerque.
I superstiti furono spogliati dei loro vestiti inzuppati di nafta e poi venne dato loro da bere un bicchiere di “aguardente”, un tipico brandy portoghese. Dopo una doccia per sgrassarli dalla nafta, vennero medicati gli occhi gonfi ed infiammati e quelli che presentavano pulsazioni deboli ricoverati in infermeria di bordo.
Furono individuate due zattere più grandi e dozzine di naufraghi solitari spersi nel mare. De Brito dovette adottare una decisione drastica: soccorrere i naufraghi più in difficoltà, come prima cosa, a scapito di quelli sulle zattere più grandi, che sebbene il numero delle vite umane era superiore, erano meglio sistemati ed avevano più opportunità di salvarsi. Questi videro la “nave della salvezza” allontanarsi da loro e ai più venne meno la speranza di essere salvati.
Prima di domenica notte, l’Albuquerque aveva già salvato 122 naufraghi. Il sole tramontò alle 6 pomeridiane e per le 7.30 p.m. de Brito ordinò il rientro delle due scialuppe messe in mare e della barca a motore per la notte. Comunque, la ricerca di superstiti continuò con l’aiuto di due riflettori di bordo. Entro la mezzanotte altri sei naufraghi furono issati a bordo.
Alle 9.50 della mattina seguente, fu avvistata nuovamente una delle zattere più grandi. Il giorno precedente, quando la zattera fu avvistata conteneva 15 persone, ora soltanto 12 naufraghi furono salvati dall’Albuquerque. Anche la seconda zattera fu avvistata: una camicia azzurra era stata issata a foggia di bandiera per individuare l’imbarcazione. Contemporaneamente, una zattera più piccola con due occupanti fu avvistata. Quale delle due soccorrere prima? Questa volta, anche considerando l’ avvicinarsi di cattivo tempo, de Brito decise, di salvare prima il gruppo maggiore di naufraghi e 17 persone furono aiutate a bordo.
Alle 1.20 pomeridiane anche la zattera più piccola fu avvistata sulla quale erano un inglese e un italiano i quali a loro volta furono salvati dall’Albuquerque.
Alle 4 del pomeriggio, il Capitano de Brito dovette nuovamente prendere un’altra decisione drastica. Le condizioni del tempo peggioravano e la speranza di trovare nuovi naufraghi sembrava svanire. Inoltre, dozzine di naufraghi, già messi in salvo, bisognavano di cure ospedaliere, de Brito decise di rientrare in Porto con a bordo 183 naufraghi. Martedì mattina alle 10 l’Albuquerque raggiunse Lorenço Marques. Molti dei naufraghi erano in condizioni di sbarcare da soli, mentre altri furono sbarcati in barella.
Per settimane e settimane corpi mutilati e irriconoscibili di quelli che persero le loro vite in acqua continuarono ad affiorare sulle spiagge. di Durban.
Epilogo
Dei 114 membri di equipaggio del Nova Scotia soltanto 14 sopravissero e furono liberi di lasciare il Mozambico via treno per Durban, una volta in grado di viaggiare.
I militari sudafricani, avrebbero dovuto essere internati, ma furono lasciati liberi dalle Autorità Portoghesi ed attraversarono il confine con il Transvaal.
Gli italiani non avevano altri paesi dove rifugiarsi, essendo il Mozambico circondato da territori nemici dell’Italia, quindi decisero di rimanere nella colonia portoghese, ottenendo un modesto aiuto dal Governo e lavoro in città. Per molti di loro il ritorno in Patria non avvenne che prima del 1946: la più parte fu considerata dispersa o perita durante l’affondamento della Nova Scotia dai loro familiari. Alcuni decisero di rimanere in Lorenço Marques anche dopo la fine delle ostilità.
Il Capitano de Brito, nel 1965, era Vice-Ammiraglio in pensione, e risiedeva a Lisbona.
Il Comandante Gysae era al Ministero della Marina, col il grado di Capitano, a Bonn dalla fine della guerra.
L’Albuquerque, la “nave della salvezza”, fece una brutta fine. Nel dicembre 1961, al largo di Goa, l’unità fu affondata dal suo equipaggio per un incidente.
Dal: Mai Taclì N. 4-1990
Risalgono a edizioni che ormai si possono classificare antiche gli articoli apparsi sul Mai Taclì a proposito del tragico affondamento del “Nova Scotia”.
Quell’affondamento che noi, ancora laggiù, sentimmo particolarmente, perché tutti conoscevamo qualcuno degli scomparsi o dei superstiti. E ci stringemmo attorno ai parenti che in Asmara, in Decamerè e in altri centri dell’Eritrea li piangevano. Esattamente, tali articoli risalgono al N.4 del luglio-agosto 1982 e al N.2 del marzo-aprile 1983. Il che, naturalmente non vuole dire che il ricordo di quel drammatico episodio non ci accompagni e commuova tuttora.
Specialmente oggi che sono andato a trovare, qui a Forlì dove abito e dove abita, Oliviero Freschi, classe 1907, uno dei superstiti.
Mi ci sono recato non per riparlare di quei tre siluri dell’U-Boot 177 tedesco che colpirono la vecchia nave inglese, né per dire delle successive terribili 48 ore degli scampati e dell’intervento provvidenziale della fregata portoghese “Albuquerque” ma perché la storia di Oliviero Freschi ha un risvolto che direi unico. Tanto che un mio particolare e ampio servizio sulla Gazzetta di Forlì ha riscosso molta attenzione.
Nel 1946 il romagnolo Freschi rientrò a Forlì, subito spostandosi a Milano Marittima ove aprì un albergo. È noto a tutti che le spiagge dell’ Adriatico sono molto frequentate dai tedeschi, un’affluenza che ingigantì l’idea di Oliviero Freschi, idea che gli mulinava in capo da tantissimo tempo: voleva conoscere il comandante del sottomarino nemico. Si diede da fare per anni, ma inutilmente, finché (e di anni ne erano trascorsi una ventina) il mensile Selezione, riparlando di quel siluramento del 28 novembre 1942, citò il nome del comandante dell’UBoot 177: Kapitanleutenant Robert Gysae. Così fu più facile per l’affondato trovare l’affondatore. E Oliviero Freschi gli scrisse invitandolo quale ospite nel proprio albergo di Milano Marittima.
Ci sarebbe stato da scommettete che il comandante Gysae (nel frattempo diventato Flottilen Admiral), pur ringraziando, non avrebbe accettato l’invito.
Invece lo accettò e la foto qui pubblicata lo testimonia. In effetti il comportamento dell’ufficiale tedesco, subito dopo l’azione e il rapido affondamento del “Nova Scotia” era stato più dell’uomo che del soldato. Robert Gysae aveva infatti immediatamente inviato dispaccio radio a Berlino perché invitasse forze navali neutrali più prossime al luogo dell’inabissamento, cioè quelle portoghesi, a disporre urgenti soccorsi. E perfino raccolse a bordo della sua unità sottomarina due naufraghi, un giovane cameriere di bordo inglese e un marinaio italiano. Non avrebbe potuto accoglierne di più sull’U-Boot.
Sulle rive dell’Adriatico, nel settembre 1967, i due si strinsero la mano, divennero amici e progettarono altri incontri, che cose da raccontarsi ne avrebbero avute tante. Incontri che purtroppo non si realizzarono perché l’Ammiraglio Robert Gysae decedeva per malattia qualche anno dopo. Ma anno dopo anno, il 28 novembre, Freschi riceveva un telegramma dalla Germania.
Mittente Robert Gysae. Auguri e complimenti per lo scampato pericolo nell’anniversario di quel tragico evento. Quando il telegramma non arrivò più Freschi capì. In una lettera l’Ammiraglio gli aveva detto di essere gravemente ammalato.
Così che lui, pratico romagnolo, di poche parole, sospese l’invio in Germania del solito prosciutto di Parma. Mi è parso giusto, bello, quasi doveroso, raccontare l’epilogo di una storia di uomini, uno siluratore, l’altro silurato, che si sono voluti guardare in faccia, capirsi, stringersi la mano. Mi è parso anche di sentire la voce di Oliviero Freschi, rivolta al tedesco, dire;” Qua la mano, Ammiraglio!”.
Cesare Alfieri
Dal MAI TACLI’ del settembre-ottobre 1993,
Dopo 11 giorni un italiano giunse barcollando sulla spiaggia sudafricana Riportiamo da “La voce”, organo di informazione della comunità italiana in Sud Africa del 6-12-1990 il seguente articolo.
Abbiamo riportato integralmente questa rievocazione che più che un racconto è una dettagliata cronistoria. Vorremmo sapere, se possibile, il nome e se ancora vivo, l’indirizzo di quell’italiano che dopo 11 giorni dalla tragedia riuscì a raggiungere la spiaggia del Sud Africa.
Ritorniamo su questo triste episodio di guerra, su questo tragico errore che tanta sofferenza causò ai nostri compatrioti, ora che la squisita cortesia del Generale Gian Adelio Maletti, ci ha permesso di avere un dettagliato racconto dell’accaduto.
Ci inchiniamo alla memoria dei nostri connazionali e dei nostri prigionieri che hanno perduto la vita così miseramente e comprendiamo la richiesta del Sig. S.Divano, uno dei sopravvissuti a quell’inferno, il cui orrore lo ha accompagnato per tutta la vita.
Da una pubblicazione, “South Africa at war” del Generale j. Martin e del Colonnello Neil D. Orpen, traduciamo: Nonostante le ricerche degli osservatori, il sottomarino tedesco U-177, che aveva silurato diverse altre navi a sud-est di Lorenzo Marques, non fu localizzato e alle 9,12 del mattino di sabato 28 novembre 1942, l’U-Boat piazzava tre siluri nella nave da trasporto Nova Scotia, a soli 19 km ad est della baia di Santa Lucia. Diversi contenitori di petrolio della nave presero fuoco, avvolgendo nelle fiamme il ponte e la sezione centrale, mentre l’U-Boat emergeva in superficie. Molti si gettarono in mare e lo stesso U-177 ne raccolse due fra i sopravvissuti. Il capitano di corvetta tedesco Robert Gysae scoprì con orrore che essi erano italiani, due dei 765 internati e prigionieri di guerra imbarcati a Massaua, da dove la nave era partita il 14 novembre, con a bordo 134 soldati sudafricani oltre all’equipaggio inglese e agli italiani.
Ci furono scene di follia tra i passeggeri in preda al panico, molti dei quali erano orribilmente ustionati. L’equipaggio riuscì a malapena a lanciare in mare tre battelli di salvataggio che erano rimasti intatti e in 6 minuti il Nova Scotia affondò.
Gysae l’aveva preso per un mercantile armato e si era diretto verso est per sfuggire ad ogni rischio, tentando di contattare Berlino. Riuscì a trasmettere la sua segnalazione solo a metà del pomeriggio, per riportare quanto era accaduto. C’erano ancora 400 sopravvissuti, dichiarò, sui battelli e relitti, ma Berlino brevemente ordinò di continuare le operazioni: “Fare la guerra prima di tutto”, gli fu detto, e il 30 novembre affondò il Liandaff Castle, presso Oro Point.
Nel frattempo, il numero di sopravvissuti del Nova Scotia, soffocati dall’olio, attaccati dagli squali, o annegati, continuava ad assottigliarsi. Berlino,aveva trasmesso una richiesta di aiuto al Portogallo, neutrale, via Madrid. Quando ancora nessuno sopravvissuto aveva potuto raggiungere le coste o potesse essere avvistato dagli aerei, l’”avviso coloniale” Afonso de Albuquerque, alla fonda a Lorenzo Marques, ricevette, alle 9 del mattino del sabato, 12 ore dopo l’affondamento, l’ordine di partire a tutta velocità per il luogo del disastro, a 288 km, al largo di Lorenzo Marques. Il suo comandante, il Capitano Josè Augusto Guerriero de Brito, fu urgentemente richiamato da un ristorante e alle 2,30 del mattino di domenica salpò le ancore nella disperata corsa alla ricerca di sopravvissuti, il primo dei quali fu avvistato appena dopo l’una del pomeriggio.
Prima del calar della sera aveva raccolto 122 naufraghi e continuò le ricerche in un mare che diveniva tempestoso, fino a raccogliere 183 italiani, che il mattino seguente furono depositati a Lorenzo Marques.
Dei 114 inglesi dell’equipaggio, ne sopravvissero 14 e partirono in treno per Durban. I sudafricani, considerati soldati belligeranti, furono internati, ma fu chiuso un occhio sulla loro fuga verso il Transvaal.
Gli italiani che sopravvissero rimasero in pace in Mozambico. Le ricerche continuarono e il 3 dicembre furono avvistati una trentina di corpi presso Unkomass, ma solo l’8 dicembre un sopravvissuto italiano del Nova Scotia pose piede barcollando sulla spiaggia a 16 km a nord di Unfizini, 11 giorni dopo che la nave era stata affondata. Un capitano che era sulla stessa zattera si era sparato e due sottotenenti erano caduti in mare. Due sudafricani su un’altra zattera erano stati persi di vista durante una tempesta nella notte del 5 o del 6 dicembre.
In tutto, 250 corpi furono trasportati dalla corrente a sud-ovest e furono raccolti presso Durban.
Nel giorno in cui l’ultimo italiano raggiunse la spiaggia, un sottomarino alla superficie fu avvistato e il 14 dicembre l’U-177 spese la sua ultima torpedine, silurando la nave inglese Sawahloento, davanti a Durban. Prima della fine del mese giunse nelle acque sudafricane il sottomarino italiano “Ammiraglio Cagni”, che il 29 novembre affondò la nave greca Argo, a soli 88 km dalla punta del Capo di Buona Speranza.
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